Il vittimismo cronico sul lavoro è uno di quei fenomeni che chi ha frequentato uffici, team e riunioni conosce benissimo. C’è sempre quella persona che trasforma ogni feedback costruttivo in un attacco personale, ogni piccolo cambiamento organizzativo in un complotto orchestrato ad hoc per rovinarle la giornata. Non parliamo della normale frustrazione di chi ha avuto una giornata difficile, quella capita a tutti. Parliamo di un pattern comportamentale talmente consolidato da essere studiato dalla psicologia organizzativa da decenni: ripetitivo, prevedibile e sorprendentemente difficile da smontare.
La psicologia dietro il meccanismo vittimistico
Il vittimismo cronico non è semplicemente pessimismo o sensibilità eccessiva. È un vero e proprio meccanismo di difesa psicologica che affonda le radici nella teoria sviluppata da Anna Freud. Queste persone hanno costruito un modo particolare di interpretare la realtà: ogni situazione diventa un attacco personale, ogni osservazione una pugnalata alle spalle, ogni modifica al progetto un piano studiato specificamente per farle soffrire.
Il meccanismo funziona, almeno nel breve termine. Chi lo adotta ottiene attenzione, simpatia ed evita di confrontarsi con i propri errori. È come indossare un’armatura emotiva fatta di autocommiserazione. Il problema è che questa armatura, col tempo, si trasforma in una prigione. Gli studi di psicologia clinica dimostrano che chi sviluppa questo schema finisce per isolarsi progressivamente, perché interagire diventa complicato per tutti. Le conseguenze sono reali: depressione, ansia e un senso di isolamento che si autoalimenta.
Il carburante nascosto: la bassa autostima
La bassa autostima è il motore principale di questo comportamento. Secondo i modelli cognitivo-comportamentali sviluppati da Beck e Ellis, quando non hai fiducia nelle tue capacità, il cervello interpreta ogni critica come la conferma apocalittica che effettivamente non vali nulla. È la differenza sostanziale tra pensare “Questo progetto non è venuto bene, devo migliorare” e “Questo progetto dimostra che sono un fallimento totale e tutti lo sanno”.
Qui entra in gioco il concetto di locus of control esterno, teorizzato da Rotter. In parole semplici, queste persone sono convinte di non avere alcun controllo sulla propria vita. Tutto dipende da forze esterne, altre persone, il destino avverso. Il risultato? Zero responsabilità personale, perché se non controlli niente, come puoi essere responsabile di qualcosa?
I segnali per riconoscere il vittimismo professionale
Come si riconosce questo pattern? All’inizio sembrano solo persone un po’ sfortunate o particolarmente sensibili, ma poi emerge un copione preciso che si ripete all’infinito.
La drammatizzazione estrema
Queste persone trasformano ogni minuzia in un evento catastrofico. Il capo chiede di rifare una slide? Eccole raccontare per ore come “nessuno apprezza il loro lavoro” e “tanto vale che se ne vadano”. Due colleghi ridono vicino alla macchinetta del caffè? Ovviamente stanno parlando male di loro. La psicologia cognitivo-comportamentale definisce questo fenomeno come “magnification”: amplificare una situazione neutra fino a renderla apocalittica.
La teoria del complotto aziendale
Qui entriamo nel territorio dell’attribuzione esterna, concetto sviluppato dallo psicologo Weiner. Queste persone attribuiscono ogni evento negativo a cause esterne, stabili e globali. Non è mai colpa loro, il problema è sempre “là fuori” ed è permanente. Il capo chiede modifiche? Non perché il cliente ha cambiato idea, ma perché ce l’ha personalmente con loro. Il progetto è in ritardo? Non per una sottovalutazione dei tempi, ma perché il team ha sabotato il lavoro.
L’allergia alla responsabilità
Questo è probabilmente il segnale più dannoso. Gli studi sulla psicologia organizzativa sono chiari: senza riconoscimento degli errori non c’è apprendimento. Ma per chi è intrappolato nel vittimismo, ammettere uno sbaglio equivarrebbe a confermare di essere quella persona orribile che nel profondo credono di essere. Quindi scaricano la responsabilità su chiunque: il software, il collega, il cliente, l’azienda. Qualsiasi cosa pur di non dire “ho sbagliato io”.
Il bisogno costante di conferme
Queste persone dedicano tempo ed energia a raccontare le loro disavventure professionali a chiunque ascolti. Non cercano soluzioni, cercano conferme. Vogliono sentirsi dire “Hai ragione, sono tutti contro di te”. Se provi a suggerire un approccio diverso, diventi anche tu parte del problema. Gli psicologi identificano questo come ricerca di approvazione e dipendenza emotiva: un modo per mantenere la narrativa vittimistica ottenendo rinforzo sociale.
La difesa permanente
Prova a fare qualsiasi osservazione, anche la più gentile e costruttiva. Scatta immediatamente la modalità difensiva, come premere un interruttore. Questo crea quella che gli esperti chiamano “barriera comunicativa”: diventa impossibile avere un dialogo costruttivo. Le persone iniziano a evitarle, confermando così la loro narrativa di essere emarginate. Un circolo vizioso perfetto.
Perché questo schema danneggia tutti
Questo comportamento è devastante non solo per chi ci lavora insieme, ma soprattutto per chi lo manifesta. Per la persona intrappolata in questo pattern, il blocco della crescita professionale è praticamente garantito. Come puoi migliorare se non accetti mai di aver sbagliato? Come sviluppi competenze se ogni feedback è un attacco?
Gli studi mostrano una correlazione forte tra vittimismo cronico e sintomi di depressione e ansia. È la classica profezia che si autoavvera: interpretando le situazioni come attacchi, generi effettivamente reazioni negative negli altri, che confermano la tua convinzione iniziale. Per i colleghi e i manager, il costo emotivo è altissimo. Dover pesare ogni parola, camminare costantemente sulle uova, sapere che qualsiasi cosa possa essere fraintesa è esaurente.
Le dinamiche di team vengono distrutte. La collaborazione richiede fiducia, feedback reciproco, flessibilità: tutte cose che diventano impossibili quando qualcuno interpreta ogni interazione come un episodio di “Tutti contro di me”. I progetti rallentano, la creatività muore, il morale crolla.
Vittime reali e vittimismo: distinguere è fondamentale
Non tutte le persone che si lamentano sono vittimiste croniche. Esistono persone effettivamente vittime di mobbing, discriminazione, dinamiche tossiche reali. Queste situazioni vanno prese sul serio. La differenza? Una persona effettivamente vittimizzata fornisce esempi concreti e documentabili che terze parti neutrali confermano. Una persona con vittimismo cronico interpreta in modo distorto situazioni che altri vivono come normali dinamiche lavorative.
I modelli di valutazione del rischio stress lavoro-correlato distinguono tra fattori oggettivi e soggettivi. Il vittimismo cronico cade nella seconda categoria: è una distorsione nella percezione, non nella realtà oggettiva.
Le radici profonde del problema
Prima di etichettare queste persone negativamente, facciamo un passo indietro. La psicologia clinica ci dice che questi schemi hanno quasi sempre radici profonde: esperienze infantili difficili, ambienti imprevedibili, traumi reali. I modelli di attaccamento sviluppati da Bowlby mostrano come le esperienze precoci plasmino il modo in cui interpretiamo le relazioni per tutta la vita.
Un bambino cresciuto in un ambiente dove l’unico modo per ottenere attenzione era soffrire probabilmente svilupperà un’associazione profonda tra sofferenza e valore personale. C’è anche la questione del controllo emotivo: per chi si è sempre sentito impotente, assumere il ruolo della vittima offre una forma paradossale di controllo. È disfunzionale, ma per chi non ha mai avuto potere su niente può sembrare l’unica carta disponibile.
Strategie pratiche per gestire la situazione
Se lavori con un vittimista cronico, ricorda: non sei un terapeuta e non è tuo compito salvare questa persona. Ci sono limiti chiari a quello che puoi e dovresti fare.
- Stabilisci confini chiari: puoi essere empatico senza diventare la spalla psicologica personale. Quando iniziano la litania, ascolta brevemente e reindirizza verso l’azione
- Concentrati sui fatti: quando ti dicono “Il capo ce l’ha con me”, riporta la conversazione alla realtà oggettiva. Questo smonta le distorsioni cognitive mantenendo la discussione ancorata al concreto
- Non alimentare la narrativa: puoi essere compassionevole senza essere complice. È un equilibrio delicato ma cruciale
- Incoraggia la responsabilità personale: domande come “Cosa avresti potuto fare diversamente?” sono inviti alla riflessione, non attacchi
- Riconosci i tuoi limiti: se il pattern è profondamente radicato e impatta seriamente il lavoro, coinvolgi le risorse umane o suggerisci supporto psicologico professionale
Il paradosso del cambiamento mancato
Ecco il twist più frustrante: queste persone spesso dicono di voler migliorare la situazione, ma resistono ferocemente al cambiamento reale. Vogliono che il mondo intorno a loro cambi, non il loro modo di interpretarlo. Perché? Perché il ruolo di vittima, per quanto misero, offre vantaggi immediati: attenzione, simpatia, evasione dalle responsabilità. Rinunciarvi significa affrontare paure profonde che sembrano schiaccianti.
La possibilità concreta di cambiare
Il vittimismo cronico non è una condanna a vita. Con consapevolezza, supporto adeguato e volontà reale di mettersi in discussione, questi pattern possono cambiare. La terapia cognitivo-comportamentale ha dimostrato efficacia nel modificare le distorsioni cognitive che alimentano questo schema.
Il primo passo è sempre la consapevolezza: riconoscere che il problema non è “il mondo contro di me” ma “il modo in cui interpreto il mondo”. È un passaggio doloroso ma l’unico che apre la porta al cambiamento reale. Nel contesto lavorativo, questo può significare trasformarsi da persona evitata a collaboratore capace di crescere, ricevere feedback e costruire relazioni sane.
Compassione senza complicità
Riconoscere il vittimismo cronico non significa mancare di empatia. Significa capire che dietro comportamenti frustranti ci sono spesso sofferenze reali e meccanismi di difesa che, per quanto disfunzionali, hanno avuto un senso nel percorso di quella persona. La psicologia ci insegna che giudicare è facile, comprendere richiede sforzo.
Ma la compassione non può diventare complicità. Permettere che il vittimismo di qualcuno danneggi le dinamiche di squadra, il tuo benessere o l’efficacia del lavoro non aiuta nessuno. Anzi, intrappola ulteriormente la persona in quel pattern. Nel mondo del lavoro moderno, dove collaborazione e intelligenza emotiva sono competenze chiave, saper riconoscere e gestire questi schemi è fondamentale per proteggere il proprio equilibrio e contribuire a creare ambienti più sani.
La differenza tra essere vittima delle circostanze ed essere vittimista cronico sta nella scelta di come interpretiamo quello che ci succede. E quella scelta, per quanto difficile, è sempre disponibile. Offrire a chi è intrappolato nel vittimismo uno specchio diverso significa mostrare non una vittima impotente, ma una persona con il potenziale concreto per scegliere un approccio diverso alla vita professionale e personale.
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